Lotta alle microplastiche nelle acque: non c'è tempo da perdere
03 August, 2022
Anche se alcune sono impossibili da individuare ad occhio nudo le microplastiche che infestano le acque del pianeta rappresentano una minaccia da affrontare con urgenza
Studi recenti hanno evidenziato che se non viene ripensato il modo in cui gestiamo la plastica – che ha prodotto nei decenni un inquinamento fuori controllo e perdite economiche incalcolabili a diversi livelli-, avremo al 2030 più plastica che pesci nei mari. Eppure la plastica è un materiale che presenta innumerevoli vantaggi e che potrebbe portare occupazione e benessere qualora gestito in un sistema economico circolare. Perchè allora continuiamo a sprecarla ? Uno dei motivi è quello che la plastica costa generalmente poco e quindi viene semplice buttarla o sprecarla. In realtà il prezzo della plastica è sempre stato basso perché non racchiude i costi generati dalle esternalità negative che il materiale causa lungo tutto il suo ciclo di vita. Non sono infatti i produttori/utilizzatori di plastica, ma l’ambiente, le comunità e la società intera a pagare il conto degli impatti economici e sanitari causati dal consumo e dall’attuale gestione lineare della plastica. Un secondo motivo è imputabile all’azione del mondo della chimica e dei produttori di plastica che hanno da sempre impostato e imposto una gestione lineare della plastica poichè funzionale al loro interesse di produrre sempre più plastica a prezzi bassi per spingere le vendite. Va anche detto che da sempre le associazioni di categoria ed aziende leader dei due settori non hanno mai accettato politiche e legislazioni volte a limitare l’utilizzo di imballaggi e contenitori “usa e getta” da parti di Governi locali o nazionali, ricorrendo anche alle aule dei tribunali per fare prevalere i propri interessi. Allo stesso tempo l'industria della plastica non ha mai collaborato realmente con gli operatori del riciclo visti come possibili concorrenti nella loro veste di produttori di granulo plastico riciclato. Una gestione circolare della plastica chiude i conti con queste dinamiche e richiede la collaborazione di tutti i soggetti portatori di interesse all’interno di filiere di materiali "closed loop", dove il cerchio del valore viene chiuso a livello locale.
QUALCHE NUMERO SULLA PLASTICA
La produzione di plastica globale è aumentata negli anni di circa l’ 8% ogni anno crescendo nell’arco di 50 anni di 20 volte. Passando cioè dalle 15 milioni di tonnellate del 1964 alle 311 milioni di tonnellate del 2014. Si prevede un raddoppio del consumo attuale nei prossimi 20 anni e una sua moltiplicazione per 4 al 2050. Se guardiamo al solo comparto del packaging delle 78 milioni di tonnellate di packaging immesso al consumo il 72% non viene recuperato. Mentre il 40% va in discarica il 32% sfugge ai sistemi di raccolta “legali”. Questi sono solamente alcuni dei dati raccolti nel report The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics
prodotto dal World Economic Forum (WEF) e dalla Ellen MacArthur
Foundation (EMF) che dovrebbero spingere le aziende a partecipare al
complesso e articolato piano di intervento globale che prevenga i
peggiori scenari previsti in caso di inazione e perseguimento del "
business as usual".
INDUSTRIA LATITANTE
Nonostante l’inquinamento da plastica e microplastiche minacci
seriamente mari ed oceani, come ha ribadito di recente lo stesso
Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, i decisori aziendali mostrano
di non conoscere o sottovalutare, in quale misura le proprie aziende contribuiscono a determinare l'impatto globale della plastica sull'ambiente.
A questa conclusione è arrivato uno studio condotto dalla EUR Erasmus University Rotterdam sotto la guida di un panel di esperti in CSR ha sondato il livello di conoscenza da parte dei responsabili di
CSR aziendali circa l’utilizzo di plastica nelle loro aziende e i rischi
per l’ambiente connessi ad una gestione inefficace del materiale.
Lo studio ha rivelato che solamente il 15% dei manager è in possesso
delle informazioni necessarie per poter essere in grado, sia di
prevenire possibili dispersioni di plastica nell'ambiente, che di
mettere in campo politiche di gestione sostenibile della plastica
utilizzata dalle aziende nei processi produttivi, di commercializzazione
e post vendita dei propri prodotti e imballaggi. Sul seguito dei risultati
dell’inchiesta è nata in Olanda un’iniziativa volta a sviluppare un
sistema che permetta alle imprese di misurare la propria “impronta
plastica”. Lo strumento promosso da Plastic Soup Foundation
(PSF), Impact Centre dell’EUR e PwC fornirà la conoscenza necessaria
per interventi di prevenzione e riduzione dell’impatto ambientale e per
disegnare un ciclo di vita più circolare della plastica. Un progetto
simile negli intenti, denominato Plastic Disclosure Project , è stato lanciato qualche anno fa negli USA.
MICROPLASTICHE TOSSICHE
Numerosi
studi hanno purtroppo confermato che gli oceani e tutte le acque del
pianeta sono sempre più simili ad una zuppa di plastica formata da
piccoli frammenti polimerici che sono per lo più il risultato della
degradazione dei rifiuti plastici finiti in acqua che avviene con il
passare del tempo.
Accanto a questa tipologia di microframmenti ci sono altre fonti di
inquinamento da microplastiche nelle acque che sono invece imputabili
all’industria della plastica, della cosmetica e del tessile. In ordine
di menzione abbiamo il pre-prodotto dell’industria plastica: minuscoli
granuli polimerici ( nurdles o plastic pellets in inglese) dispersi
nell’ambiente durante il trasporto verso le industrie trasformatrici, le
microsfere di polietilene contenute in cosmetici e detergenti per il
loro effetto esfoliante, e i minuscoli frammenti tessili che si staccano
dai tessuti sintetici durante i lavaggi. A causa delle dimensioni
infinitesimali essi sfuggono sia ai filtri delle lavatrici che degli
impianti di depurazione delle acque.
Diversi studi hanno confermato come le tipologie di plastica dispersa in acqua e in particolare le microplastiche assorbono come spugne le sostanze chimiche inquinanti disperse nelle acque che
si accumulano nella plastica in concentrazioni maggiori rispetto a
quelle presenti nelle acque. Sostanze chimiche pericolose come i
policlorobifenili (PCB) o gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA o
PHA in inglese) sono state trovate nei campioni analizzati in
concentrazioni sino ad 1 milione di volte superiore a quella contenuta
nelle acque dove sono stati prelevati. Oltre a diventare dei vettori
dell”inquinamento marino questi frammenti tossici vengono ingeriti dagli
organismi marini e prima o poi arrivano nei nostri piatti attraverso i
prodotti ittici che consumiamo. ll rischio per l’uomo è amplificato dalla capacità di questi
contaminanti di bioaccumularsi negli organismi, di concentrarsi cioè in
quantità sempre maggiori nei tessuti degli organismi marini che
ingeriscono microplastiche: dallo zooplancton ai molluschi, crostacei e
pesci sempre più grandi. E, come se non bastasse, la plastica potrebbe minacciare ancora più seriamente la vita della fauna ittica qualora sempre più larve di
pesce preferissero nutrirsi di plastica invece che di zooplancton, come uno studio recente ha rivelato .
AZIENDE COSMETICHE
Alcune industrie cosmetiche e di prodotti per la cura della persona hanno eliminato volontariamente l’uso di plastica solida (microsfere) anche a seguito di varie campagne internazionali come Beat the microbead. Unilever le ha eliminate quasi due anni fa mentre Procter & Gamble e l’Oréal
non lo faranno prima del 2017. Tuttavia, senza un bando globale sarà
difficile mettere la parola fine a questa pratica in tempi accettabili.
Difatti la data proposta da Cosmetics Europe (Associazione europea delle
industrie cosmetiche) ai propri associati affinché ne sospendano
l’impiego è solamente il 2020. L’associazione, per alleggerire le
responsabilità dell’industria rispetto al problema evidenzia che la
percentuale massima attribuibile alle microsfere di origine cosmetica
sul totale dei rifiuti marini non supera l’1,5%. Tuttavia, se consideriamo il pesante impatto ambientale che deriva dalle 5000 tonnellate di microsfere utilizzate ogni anno dall’industria cosmetica che finiscono nei corsi d’acqua e nei mari, non è davvero giustificabile attendere oltre. Anche gli interventi dei rappresentanti (1) di multinazionali come Unilever, l’Oréal e Procter & Gamble invitati ad un audizione dedicata all’uso delle microplastiche nei prodotti per la cura della persona richiesta dall’House of Commons Environmental Audit Committee,(2)
dello scorso 29 giugno sono stati infatti piuttosto “deludenti”. Da tre
multinazionali che fanno della sostenibilità un elemento fondante del
core business aziendale, ci si sarebbe aspettato di più. A partire dalla
mancata applicazione del principio di precauzione nel 1990, quando le
stesse aziende insieme ad altre passarono massicciamente all’uso delle
microplastiche (senza verificare le conseguenze sull’ambiente), passando
per i tempi lunghi di Oréal e P&G (2017) e al rifiuto ( Unilever e
Oréal ) di eliminare altri composti polimerici utilizzati ad esempio in
deodoranti e rossetti come il polietilene (in forma liquida) o il
Politetrafluoroetilene (PTFE). Solamente il referente di P&G ha
annunciato che elimineranno il PTFE. Consigliamo di leggere
l’interessante trascrizione dell’audit (scaricabile anche in pdf)
che rende l’idea sia sulla natura del contendere, che di come si svolge
un’audizione (ben fatta) tra rappresentanti governativi molto abili e
preparati (come gli inglesi del Comitato ambientale) e la controparte
industriale.
Per quanto concerne l’Italia, priva di un tale organismo di tutela ambientale, non c’è che da augurarsi che vada avanti la proposta di legge
presentata qualche settimana fa dal presidente della commissione ambiente della camera
Realacci. Grazie anche all’impegno dell’Associazione Marevivo.
Purtroppo restano fuori dal provvedimento le altre fonti di
inquinamento da microplastiche che andrebbero affrontate con altrettanta
urgenza.
GREENPEACE-MICROBEADS COMMITMENT SCORECARD
Come evidenzia la classifica di Greenpeace East Asia, sono quattro le aziende che si stanno impegnando maggiormente per eliminare le microsfere dai propri prodotti: Beiersdorf e Henkel (Germania), Colgate-Palmolive e L Brands (Stati Uniti). Altre aziende, come le statunitensi Revlon, Amway e Estee Laudeer, hanno mostrato uno scarso impegno e pertanto occupano gli ultimi posti in classifica. Tuttavia è necessario sottolineare che nessuno dei 30 marchi internazionali presi in esame ha soddisfatto tutti i criteri di valutazione necessari per garantire la protezione dei nostri mari dall’inquinamento da microplastica. «Questa classifica prova che l’intero settore sta facendo molto poco per risolvere questo grave problema ambientale», dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. «Le
aziende sostengono di riuscire a gestire il problema ambientale delle
microsfere, ma questo è falso, come dimostra il rilascio quotidiano
negli oceani di miliardi di microsfere contenute nei prodotti per la
cura e l’igiene personale». «Al netto degli impegni delle
singole aziende, sono necessari provvedimenti legislativi urgenti che
vietino immediatamente l’utilizzo delle microsfere in tutti i prodotti
per l’igiene personale, evitando così che queste particelle continuino a
inquinare gli oceani», conclude Ungherese.
MICROFRAMMENTI TESSILI SINTETICI
Nel 2014 è partito il progetto europeo Mermaid Ocean Clean Wash finanziato dal programma Life+ con l’obiettivo di studiare l’entità del fenomeno e sviluppare la ricerca di soluzioni. Tra i partner del progetto arrivato a metà strada ci sono il CNR per l’Italia, LEITAT e Polysistec (Spagna) e l’ONG olandese Plastic Soup Foundation.
Una ricerca compiuta da Mermaid nel 2015 ha verificato che le quantità riscontrate di microfibre sintetiche rilasciate per lavaggio è di molto superiore a quelle rilevate in un precedente studio del 2011 di M.A.Browne: Accumulation of microplastics on shorelines worldwide
. Dai test effettuati su tessuti acrilici come nylon e poliestere è
emerso che un grammo di tessuto rilascia in un solo lavaggio più di 3.000 microfibre per grammo. Una felpa in pile dal peso di 680 grammi può perdere circa 1 milione di fibre a lavaggio, un paio di calze di nylon quasi 136.000.
Plastic Soup Foundation ha invitato lo scorso aprile , in collaborazione con il marchio di abbigliamento G-Star RAW le aziende della moda a sottoscrivere una carta di impegni con l’obiettivo di liberare i mari dalle microfibre sintetiche.
Tra le soluzioni individuate da Mermaid per ridimensionare il fenomeno che non attengono solamente all’industria tessile ci sono:
-Sviluppo di nuovi filtri interni o esterni alle lavatrici in grado di trattenere i frammenti tessili
-Sviluppo di tessuti acrilici che non presentino questo inconveniente attraverso tecnologie e trattamenti che non siano dannosi su altri piani per la salute dell’uomo e dell’ambiente
-Sviluppo di altre soluzioni tecniche che forniscano soluzioni al problema.
Tra le possibili soluzioni applicabili si è esplorata l’opzione di poter sviluppare tecnologie applicabili agli impianti di depurazione delle acque che catturino le microfibre ma le difficoltà di intervento in questo stadio paiono maggiori rispetto alle altre possibilità di intervento precedentemente elencate. Ecco infatti l’intervento di un responsabile di Water UK (gestore impianti di depurazione acque in UK) invitato ad un’audizione dell’Environmental Audit Committee per spiegare come funzionano gli impianti rispetto e come si
Sul sito di Mermaid si trovano alcune indicazioni
su come ridurre il rilascio di microfibre dei tessuti sintetici tra i
quali lavare i capi quando veramente è necessario, effettuare lavaggi
brevi a bassissime temperature, abbassare al minimo i giri della
centrifuga, utilizzare ammorbidenti ed evitare i tessuti sintetici.
Rispetto all’utilizzo dell’ammorbidente il rischio che rileviamo noi è
che così facendo si sposti l’impatto ambientale su altri fronti se
consideriamo le sostanze chimiche contenute negli ammorbidenti.
Per quanto riguarda l’utilizzo di fibre naturali andrebbero però
preferiti tessuti che contengono fibre riciclate invece che vergini
perché l’impatto della produzione del cotone o di altri tessuti come
quelli derivati dalla cellulosa , ha pesanti impatti sull’ambiente.
Le fibre sintetiche possono essere una soluzione interessante per
ridurre il consumo di materie prime soprattutto se derivano da capi
riclati ma è indispensabile che la ricerca trovi delle soluzioni per
eliminare questo effetto indesiderato in fase di lavaggio.
(1) Dr Laurent Gilbert, Director for International Development of Advanced Research at L’Oréal, Ian Malcomber, Science Director at Unilever, and Dr Patrick Masscheleyn, Director R&D Beauty Care and Global Product Stewardship, Procter & Gamble.
(2) House of Commons Environmental Audit Committee– Il Comitato di Controllo Ambientale attivo dal 1997 ha il mandato di verificare se le politiche e i programmi intrapresi dai dipartimenti governativi ed enti pubblici rispettano gli obiettivi di protezione ambientale e di sviluppo sostenibile.
Approfondimenti
Microsfere di plastica nemiche degli oceani– video di Greenpeace
Micro Plastics un video sul tema di 18 minuti realizzato in Australia
Banning microbeads from cosmetics is not enough.
Anthony Ricciardi Professore in Scienze Ambientali spiega in quali
altri prodotti e situazioni vengono impiegate le microsfere.