Consorzio C.A.R.P.I: "Bando dei sacchetti, regola tecnica non notificata alla Commissione"
Il sito Polimerica pubblica una comunicazione inviata dal Consorzio di riciclatori C.A.R.P.I., in merito all'entrata in vigore, il 1° gennaio scorso, del divieto alla commercializzazione di sacchetti in plastica non biodegradabile. Da Polimerica.it dell' 11.01.2011
11 January, 2011
Polimerica: Riceviamo e volentieri pubblichiamo integralmente la comunicazione inviataci dal Consorzio di riciclatori C.A.R.P.I., in merito all'entrata in vigore, il 1° gennaio scorso, del divieto alla commercializzazione di sacchetti in plastica non biodegradabile. Il tema è delicato, anche perché il bando sta mettendo in ginocchio numerosi produttori di sacchetti, con risvolti anche occupazionali in un periodo non certo florido per il nostro sistema industriale.
Secondo uno studio effettuato dal servizio affari legali del Consorzio C.A.R.P.I. la disposizione di cui alla Legge 296/06 (finanziaria 2007) commi 1129, 1130 e 1131, in base alla quale dal 1° gennaio 2011 sarebbe vietata la commercializzazione delle buste per asporto delle merci in materiali non biodegradabili, potrebbe non essere efficace e validamente applicabile.
Qualche dubbio. La lettura dei commi 1129 e 1130 dell’articolo 1 della “Finanziaria 2007” fa sorgere alcuni dubbi circa l’immediata applicabilità del divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica non biodegradabili. Tale dubbio parrebbe superato dal recente comunicato (30 dicembre 2010) del Ministero dello Sviluppo economico. Si osserva, inoltre, che alcuni Comuni hanno già adottato disposizioni, con relative sanzioni, per punire i soggetti che commercializzano ancora sacchetti prodotti in materiale non biodegradabile. Peraltro si osserva che un’analoga disposizione approvata in Francia censurata dalla Commissione UE. A quanto a noi risulta, il divieto della commercializzazione buste in plastica non biodegradabile non è previsto da alcuna Direttiva comunitaria (contrariamente a voci fatte circolare in proposito).
Le considerazioni che seguono, tuttavia, prescindono da qualunque argomento giuridico di diritto interno dal momento che la nostra tesi è quella di ritenere la normativa italiana non applicabile per la violazione di superiori disposizioni comunitarie.
Regola tecnica non notificata alla Commissione. La disposizione italiana che interessa può essere qualificata come una regola tecnica dal momento che vieta la commercializzazione di un prodotto. La giurisprudenza della Corte di giustizia si è già pronunciata sulla natura di regola tecnica di tali disposizioni (Corte di giustizia sentenza del 21 aprile 2005, c 267/03).
La direttiva 98/34/Ce dispone che ogni progetto di regola tecnica deve essere notificata alla Commissione, ai sensi della direttiva medesima, prima della sua adozione (cfr. artt. 1e 8 direttiva 98/34/Ce). In sintesi, il progetto di legge contenente le disposizioni di cui si discute avrebbe dovuto essere notificato dal Governo italiano alla Commissione. Non risulta, e peraltro nella legge non vi è traccia di tale passaggio, che l’adempimento sia stato soddisfatto.
La Corte di giustizia ha precisato, sin dalla seconda metà degli anni ’90 (sentenza del 30 aprile 1996, c-194/94), che il mancato adempimento dell’obbligo di comunicazione di una regola tecnica è un vizio procedurale sostanziale, atto a rendere la regola tecnica non comunicata alla competente istituzione europea, inapplicabile. Peraltro, la Corte di giustizia si è già occupata di un caso simile, ribadendo il principio sopra esposto (Corte di giustizia, sentenza dell’08 settembre 2005, c 303/04).
In conclusione, riteniamo che la disposizione di cui si discute, se non correttamente notificata in sede europea, non possa produrre effetti giuridici.
Puntare sul riciclo. Non vi è dubbio che l’utilizzo indiscriminato di plastica “vergine” non giovi all’ambiente poiché i relativi rifiuti certamente inquinano, ma proprio per ovviare a tale problema esiste il riciclo della plastica. In plastica riciclata si ottengono prodotti tecnicamente efficienti ed economici senza attingere a fonti non rinnovabili, anzi trasformando il rifiuto (plastico) da problema a risorsa.
Per tale motivo ha destato preoccupazione la disposizione secondo cui dal 1° gennaio 2011 sarebbe vietata la commercializzazione delle buste per asporto delle merci (shopper) in materiali non biodegradabili, preoccupazione per due ragioni:
* in buona parte i sacchetti in plastica sono realizzati a partire da granulo di PE rigenerato, dunque la disposizione chiuderebbe un importante sbocco di mercato all’attività dei riciclatori;
* in buona parte i riciclatori producono il granulo rigenerato a partire da scarti di produzione di chi fabbrica sacchetti in plastica, dunque la disposizione chiuderebbe un’importante fonte di approvvigionamento di materia prima per i riciclatori.
In sintesi in circuito virtuoso (materia prima vergine / prodotto / rifiuto – sottoprodotto / materia prima seconda / nuovo prodotto) potrebbe essere interrotto in favore di un materiale, la bio plastica che:
* non è riciclabile;
* ha caratteristiche tecniche inferiori ed un costo superiore alla plastica tradizionale;
* comporta un importante consumo di territorio e di acqua (si stima che per realizzare l’equivalente delle 200.000 ton/anno di shopper in bio plastica si dovrebbero coltivare non meno di 300.000 ettari di terreno ed impiegare ca 1.200.000.000 m3 di acqua;
* se non correttamente gestita, una volta rifiuto, comporta emissione di metano (20 / 25 volte più dannoso della CO2);
* favorisce le importazioni da paesi extra UE a scapito dell’industria Italiana.
Per tale motivo il consorzio C.A.R.P.I. ha interpellato i propri consulenti legali che hanno concluso per una quasi certa inapplicabilità del divieto di commercializzazione di buste in polietilene.
La vera alternativa ambientale agli shopper monouso in plastica vergine sono borse o reti riutilizzabili in plastica riciclata (conformemente alle disposizioni comunitarie)